lunedì 26 dicembre 2011

Inculoincrisi

Stamattina vado a far colazione al bar. Trovo Marx a farsi un aperitivo. Lo guardo dritto nelle borse degli occhi: – Nottataccia, eh?
– Da quando mi hanno sostituito a Nikolaus - mi risponde - le case dei bambini cubani me le devo grattare io. Bella merda, il socialismo!
– Minchia ma... non eri ebreo?
– Ehmbè?
– Vabbè oh. Pensa tra un po' che il capitalismo crollerà e dovrai accollarti pure i camini europei!
No no, non mi preoccupo. Per ora l'Occidente si trova al sicuro dentro il castello del capitale.
– Ma se non fanno altro che ripetere che il capitalismo è morto e sepolto!
– Ja! È chi il coglione che te lo dice?
– Be', i capitalisti!
– Na gut!
– Ma porcoddio! Devi sempre rovinare tutto?
– Senti ragazzino, prenditi un libro di storia! Eh? Vai al capitolo: La rivoluzione industriale. È chiaro e splendente come un cesso appena pulito. Capisci che quelli dal 1843 al 1845 furono gli anni della prosperità industriale e commerciale, conseguenza necessaria della depressione quasi ininterrotta dell’industria negli anni 1837-42. Come sempre, con la prosperità si sviluppa molto rapidamente anche la speculazione. La speculazione di regola si presenta nei periodi in cui la sovrapproduzione è in pieno corso. Essa offre alla sovrapproduzione momentanei canali di sbocco, e proprio per questo accelera lo scoppio della crisi e ne aumenta la virulenza. La crisi stessa scoppia dapprima nel campo della speculazione e solo successivamente passa a quello della produzione. Non la sovrapproduzione, ma la sovraspeculazione, che a sua volta è solo un sintomo della sovrapproduzione, appare perciò agli occhi dell'osservatore superficiale come causa della crisi. Il successivo dissesto della produzione non appare come conseguenza necessaria della sua stessa precedente esuberanza, ma come semplice contraccolpo del crollo della speculazione. Insomma, proprio un cazzo di nuovo.
– Porcatroia, barba! Sei un fottuto genio!
– Che belle storie abbiamo dalla sinistra ora? Na ja: noi la crisi non la paghiamo, eh? E chi la deve pagare? I capitalisti? I capitalisti si pagherebbero la loro crisi? Ma se hanno l'imbarazzo della scelta sulla strategia da applicare! Checcazzo: o le banche si tengono le loro, loro cioè nostre, risorse per poi passarle, con una fiscalità ad hoc, agli apparati produttivi e sbolognare tutta la sovraccomulazione di capitale fittizio, sgonfiando i debiti delle imprese, ah be', senza passare per il sostegno al reddito dei lavoratori, ovvio; o lo Stato si intasca i pochi capitali dei lavoratori per passarli a banche, come fondi chennesò di salvataggio, e imprese, con commesse o finanziamenti eccetera. I lavoratori quindi? Be', sticazzi. Non è un problema loro, no? Il fatto è che quando le cose son fin troppo chiare, la gente stronza non vuol crederci.
– Come si risolve la questione?
– Be', posto il fatto che in ogni crisi capitalistica gli oneri e i cazzi vari finiscono sulla schiena dei lavoratori: non c'è soluzione. L'unica è passare ad una società dove questo non accada, e di certo non si chiama capitalismo.
– E tutto questo discorso per niente?
– Cazzo, Maggi! Se avessi la soluzione, sarei qui al bar ad ubriacarmi alle nove di mattina? Se avessi la soluzione, andrei la notte di Natale a spaccarmi il culo per portare doni ai bambini?
– Karl, sai che ti dico? Vaffanculo!» -
C'è rimasto male, il vecchio. Ma alla fine l'ombra gliel'ho pagata io.
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Liberamente tratto da Antiper, Effetto John Belushi, Dicembre 2011.

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